![]() La competenza religiosa del bambino
1. PARLARE DI COMPETENZA Le riflessioni di questi anni hanno spesso portato l’attenzione degli operatori della scuola sul concetto di COMPETENZA. Ci si può chiedere se questo è dettato da una “moda”, una delle tante che si manifestano nel mondo della scuola, che mandano in crisi gli insegnanti per poi sparire all’improvviso, così come sono venute. Oppure tutto viene dall’affanno efficientisco del nostro tempo, dall’ansia di prestazione che avvolge ogni giorno il fare dell’uomo d’oggi. A guardar bene non sembra che siano questi i motivi che hanno portato pedagogisti ed operatori della scuola a parlare di competenze. “In realtà l’attenzione nasce dal capovolgimento di prospettiva che oggi viene dato ai curricoli scolastici, il cui ripensamento viene sollecitato nella direzione di una focalizzazione sull’apprendimento (imparare ad apprendere), più che sulla trasmissione dei contenuti. Le competenze rappresentano il punto di riferimento dell’insegnamento disciplinare, ed anzi viene privilegiata l’attenzione a quelle che possono considerarsi competenze generali, o, come spesso si dice, trasversali, quelle cioè che, per usare un’espressione di E. Morin, caratterizzano la testa ben fatta”. 1 Nel 2000 i Paesi dell’Unione europea hanno sottoscritto un comune documento sulle politiche scolastiche per il decennio 2000-2010, che stabilisce otto competenze fondamentali: comunicazione nella madrelingua; comunicazione nelle lingue straniere; competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia; competenza digitale; imparare a imparare; competenze interpersonali, interculturali e sociali e competenza civica; imprenditorialità; espressione culturale. Questo spiega i vari progetti di riforma messi a punto negli ultimi anni in Italia e negli altri stati europei.
1. Imparare ad imparare: ogni giovane deve acquisire un proprio metodo di studio e di lavoro. (Oggi molti di loro si disperdono perché non riescono ad acquisirlo). 2. Progettare: ogni giovane deve essere capace di utilizzare le conoscenze apprese per darsi obiettivi significativi e realistici. Questo richiede la capacità di individuare priorità, valutare i vincoli e le possibilità esistenti, definire strategie di azione, fare progetti e verificarne i risultati. (Oggi molti di loro vivono senza la consapevolezza della realtà e delle loro potenzialità). 3. Comunicare: ogni giovane deve poter comprendere messaggi di genere e complessità diversi nella varie forme comunicative e deve poter comunicare in modo efficace utilizzando i diversi linguaggi. (Oggi i giovani hanno molte difficoltà a leggere, comprendere e a scrivere anche testi semplici in lingua italiana). 4. Collaborare e partecipare: ogni giovane deve saper interagire con gli altri comprendendone i diversi punti di vista. (Oggi i giovani assumono troppo spesso atteggiamenti conflittuali e individualistici, perché non riconoscono il valore della diversità e dell’operare insieme agli altri). 5. Agire in modo autonomo e responsabile: ogni giovane deve saper riconoscere il valore delle regole e della responsabilità personale. (Oggi spesso i giovani agiscono in gruppo per non rispettare le regole e per non assumersi responsabilità). 6. Risolvere problemi: ogni giovane deve saper affrontare situazioni problematiche e saper contribuire a risolverle. (Oggi i giovani tendono, spesso, ad accantonare e a rinviare i problemi per la situazione di malessere esistenziale che vivono nell’incertezza del futuro). 7. Individuare collegamenti e relazioni: ogni giovane deve possedere strumenti che gli permettano di affrontare la complessità del vivere nella società globale del nostro tempo. (Oggi molti giovani non possiedono questi strumenti). 8. Acquisire ed interpretare l’informazione: ogni giovane deve poter acquisire ed interpretare criticamente l'informazione ricevuta valutandone l’attendibilità e l’utilità, distinguendo fatti e opinioni. (Oggi molti giovani sono destinatari passivi di una massa enorme di messaggi perché sono sprovvisti di strumenti per valutarli).
La sperimentazione avvenuta in Italia in questi ultimi anni nell’ambito del rinnovo dell’IRC ha definito le competenze fondamentali che tale insegnamento dovrebbe curare, nell’ottica del sapere, saper fare, saper essere, saper vivere in relazione.
Viene precisato che tali competenze vanno declinate in rapporto all’età degli alunni, dei contesti di vita e del possibili collegamenti interdisciplinari. 2 Potremmo dunque dire che scopo dell’IRC è agevolare il passaggio da esperienze ingenue di contatto con il religioso ad esperienze progressivamente più consapevoli. Proprio perché si parla di competenze occorre tenere presente una concezione attiva dell’apprendimento, che tenga sempre presente l’esperienza del bambino e il suo apprendere, gradualmente, ad essere in situazione. L’acquisizione di competenze passa attraverso la padronanza dei codici linguistici e la formazione di quadri concettuali, di abilità e di tecniche di indagine, a partire da una consuetudine a porsi domande che apre tutto un percorso di ricerca delle risposte, fondamentale per essere veramente costruttori del proprio sapere. La competenza religiosa del bambino costituisce l’obiettivo dello sviluppo di un lavoro scolastico che non si esaurisce certamente nella scuola dell’infanzia, ma che può, e deve, trovare già qui le proprie radici. Infatti a livello di scuola dell’infanzia “i bambini sono aiutati a maturare una iniziale competenza sulla persona, sulla vita, sul messaggio di Gesù e a riconoscere i principali segni e simboli della vita cristiana.” 3
- quando ha inizio il senso religioso? - si può parlare di religiosità infantile? - la religiosità è innata? e si sono trovati anche su posizioni opposte. Penetrare il rapporto interpersonale tra Dio e un bambino è un’impresa * sia perché Dio stesso è carico di mistero, * sia perché la capacità espressiva e comunicativa del bambino è limitata, * sia perché l’adulto usa sue categorie per osservare una realtà molto diversa da sé.
“La religiosità si presenta innanzitutto come riconoscimento intellettuale dell’esistenza di un Essere creatore, ritenuto causa prima di ogni cosa, e del quale sono apertamente ammessi i vari attributi, a seconda della cultura e dell’orientamento mentale del soggetto.” 4
Allport riconosce però anche che se due terzi dell’umanità continuano ad avere una fede religiosa e l’altro terzo, pur non aderendo ad un credo istituzionale, scopre e vive un sentimento religioso dell’esistenza (e si pone i problemi della creazione, del bene e del male, del senso e del fine della vita umana), non possiamo continuare a difendere posizioni riduttive che attribuiscono alla religione soltanto la funzione di produrre stabilità sociale o di dar forma controllata a pulsioni ed emozioni troppo forti 6.
E concludono dicendo che l’inizio dell’esperienza religiosa è nel bambino probabilmente ambivalente, perché condizionata in eguale misura, sia dai problemi di adattamento della prima infanzia, sia da fattori di apprendimento manipolati dall’esterno. 7 Leggendo alcune testimonianze di ricercatori sulla religiosità del bambino colpisce vedere come bambini che non hanno ricevuto nessuna educazione religiosa manifestino comunque un senso di Dio.
Parole ben più grandi dei bambini che le hanno pronunciate; momenti fugaci, sporadici, ma non per questo meno veri. Bastano per lasciarci intravedere una realtà misteriosa presente nel bambino. Il fatto che si tratti solo di sprazzi di luce non è così irreale: è proprio del bambino vivere dapprima in modo discontinuo le ricchezze che solo gradualmente, e attraverso l’aiuto dell’ambiente, diventeranno poi habitus costante. Da queste e numerose altre testimonianze sembra proprio di poter affermare che i bambini: - sanno, in campo religioso, cose che nessuno ha detto loro; - sono capaci di relazionarsi con l’invisibile; - sono capaci di preghiera. A. Frossard ha parlato di bambino “metafisico”, un bambino che si muove a suo agio nel mondo del trascendente e gode sereno del contatto con Dio. Nell’aiutare la vita religiosa del bambino, lungi dall’imporgli qualcosa che gli è estraneo, rispondiamo ad una sua silenziosa richiesta: “Aiutami ad avvicinarmi a Dio”. 2.2 I fattori di sviluppo della religiosità umana Diversi sono i fattori che incidono sullo sviluppo della religiosità nella persona. Possiamo raccogliere in alcuni grandi contenitori.
Lo sviluppo intellettuale determina anche lo sviluppo del senso religioso: a mano a mano che crescono le capacità del pensiero, che la persona passa dallo stadio preoperatorio, allo stadio operatorio-concreto, a quello astratto cresce anche la possibilità di comprendere meglio la realtà divina. Guardando agli studi del Piaget le prime fasi sono quelle del - periodo senso-motorio (dai 0 ai 2 anni di vita) nel quale il bambino è capace solo di una conoscenza pratica dell’ambiente, attraverso le percezioni e i movimenti - periodo del pensiero intuitivo o pre-operatorio (dai 2 ai 6-7 anni), caratterizzato dalla prevalenza dei dati percettivi immediati su quelli rappresentativi. Il bambino acquisisce il linguaggio e diviene capace di rappresentazioni mentali degli oggetti di cui fa esperienza. Piaget descrive numerose forme di pensiero di questo periodo, che possono essere ricondotte a due principi: - l’egocentrismo che definisce l’incapacità del bambino di porsi da un punto di vista diverso dal proprio; - la precausalità, cioè l’incapacità a stabilire legami causali adeguati tra sé e il mondo esterno, e tra le cose del mondo esterno. Le modalità di interpretazione del reale non sono tanto le leggi fisiche quanto le categorie psico-morali e la causalità è confusa con l’intenzionalità, attribuita anche alle cose. Questi diversi stadi, e quelli che seguiranno, si caratterizzano non per un sapere di più, ma per un diverso modo di conoscere, per particolari modalità di accostarsi alla realtà. Inoltre si susseguono in modo invariabile ed inevitabile. Diversi fattori incidono sullo sviluppo della religiosità umana:
Da parecchi studi emerge che l’influenza determinante della dinamica affettiva sulla religiosità è da attribuirsi prevalentemente al rapporto con i genitori. Le figure parentali diventano mediatrici del rapporto con Dio: dal vissuto della relazione con i genitori, sembra infatti accertato che il bambino inferisca simbolicamente il modello di relazione con il Padre celeste, riproponendone così le ricchezze e le povertà, le gratificazioni e le frustrazioni. (per Freud è l’immagine del padre che diventa immagine di Dio, mentre per Jung è la figura della madre a giocare questo ruolo; dal canto suo Bovet sostiene che il sentimento basilare su cui si fonda quello religioso è il sentimento filiale. Il bambino investe prima di tutto il suo affetto sui genitori, considerati come dei; poi trasferisce su un essere più lontano tutti gli attributi meravigliosi che attribuiva a loro.). Inoltre anche le esperienze di gratificazione e il soddisfacimento dei bisogni (di sicurezza, di appoggio, di accoglienza) segnano lo svilupparsi dell’immagine di Dio. Ma i genitori non sono solo mediatori della rappresentazione del divino attraverso l’esercizio delle loro funzioni parentali: essi svolgono anche la prima educazione religiosa. Sui bambini influiscono gli atteggiamenti dei genitori nei confronti di Dio, ma anche il modo in cui essi vivono la loro relazione reciproca e il modo di soddisfare i bisogni dei figli. Concretamente il bambino scopre gli attributi di Dio nella vita che conduce con il padre e con la madre.
In stretta connessione con i fattori precedenti c’è anche l’influenza ambientale: la cultura nella quale la persona è inserita, l’insieme delle credenze del popolo a cui appartiene, il modo di vedere la vita e di affrontarla, le pratiche religiose. Fra gli agenti socializzatori, la famiglia è quella che esercita la maggior influenza in questa età. Il bambino, soprattutto attraverso l’osservazione dei comportamenti degli adulti che lo circondano, mette in atto una condotta imitativa che si traduce in una percezione diffusa e globale, basata quasi unicamente sugli aspetti esteriori della pratica familiare. Senza esperienza precoce di felicità e gratificazione, senza il soddisfacimento del bisogno di sicurezza, di appoggio, di accoglienza non ci può essere desiderio religioso. I genitori, infatti, rivestono un ruolo fondamentale per favorire atteggiamenti e situazioni che fanno da fondamenta per la nascita e lo sviluppo del senso religioso. Sono autentiche guide per la formazione di un rapporto di fiducia, che ha il suo apice nell’accogliere la rivelazione di un Dio che è Padre, anzi, Abbà (termine molto confidenziale). Non è che i genitori non debbano mai sbagliare. Il nocciolo della questione non è “fare tutto giusto”, ma dare qualità al rapporto con i figli, facendo emergere quel sentimento di base che ha in sé una profonda valorizzazione della vita dei figli: “E’ bene che tu ci sia.” Ogni figlio è un desiderio di Dio per il mondo. Oltre alla famiglia anche la scuola riveste una certa importanza, perché segna per il bambino il primo ingresso nella società che va oltre la famiglia. La quasi totalità dei bambini italiani frequenta la scuola dell’infanzia, quindi possiamo considerarlo dato comune ed esperienza diffusa. Esperienza nuova, di fronte alla quale il bambino deve cercare un “adattamento” (nel senso piagetiano del termine) che ha scarsi ancoraggi in modalità “assimilatorie” e deve cercare un “accomodamento” che presuppone una notevole elasticità. I bambini “rigidi” (perché poco stimolati o troppo protetti dall’ambiente familiare) incontrano maggiori difficoltà e tendono a rifiutare l’esperienza scolastica. La scuola affianca la famiglia nel compito educativo, ma rappresenta anche un allargamento dei legami affettivi; un approccio ad un mondo che è “altro” rispetto all’ambiente noto e familiare di casa propria; un luogo in cui i bambini iniziano a sperimentare la socializzazione. Tra i più piccoli prevale un atteggiamento competitivo ed autoaffermativo, che si manifesta in una tendenza a scavalcarsi reciprocamente nelle affermazioni, nella gestualità, nel tono della voce. Ma lo stare con gli altri, coetanei ed insegnanti, rappresenta un “banco di prova” non indifferente per essere aiutati ad uscire gradualmente dal proprio egocentrismo. La famiglia è un ambiente piccolo e ristretto, dove spesso tutte le attenzioni sono concentrate sui bambini. Entrare nella scuola dell’infanzia significa inserirsi in un mondo nuovo, sconosciuto; venire a contatto con un gruppo numeroso di coetanei, magari mai visti prima, con i quali il rapporto è tutto da costruire, senza poter contare su posizioni di privilegio. Significa anche incontrare adulti, la cui stima va in un certo senso “guadagnata”, il cui interessamento ed affetto non può essere accaparrato in esclusiva. 3. LE CARATTERISTICHE DELLA RELIGIOSITÁ INFANTILE La religiosità infantile risulta fortemente segnata dagli stessi aspetti che accompagnano la crescita del bambino. Per questo vediamo che influenza hanno antropomorfismo, magismo, animiamo e artificialismo sulla crescita del senso religioso. 9
Basta ascoltare i bambini per comprendere quanto la loro crescita religiosa risenta dell’evoluzione connaturata con lo sviluppo. Facciamo un esempio. Un gruppo di bambini sollecitati, in prima elementare, con la frase aperta: se tu incontrassi Gesù…. ecco cosa hanno scritto.
Gli stessi bambini, interpellati in quinta con lo stesso stimolo si sono così espressi:
4. FAVORIRE LO SVILUPPO DEL SENSO RELIGIOSO Possiamo individuare alcuni atteggiamenti che favoriscono lo sviluppo del senso religioso.
L’essere umano che si pone davanti a Dio non può non stupirsi - per la sua grandezza, - per il suo amore per l’uomo, - per le sue opere visibili nella creazione, - per la sua presenza che dà pace e sicurezza interiore, conforto nella sofferenza, sostegno nel bisogno. Per questo la persona che è aiutata a stupirsi, a meravigliarsi anche per le piccole cose, a cogliere ciò che di bello e grandioso c’è nel quotidiano saprà maturare un sentimento religioso profondo.
Non si può far spazio ad un altro, soprattutto se con la A maiuscola, senza l’apertura, senza rinunciare a qualcosa di se stessi. Se tutto lo spazio che viviamo è occupato dal nostro io, non c’è più posto per nessuno. Ma così finiremo col vivere in perfetta solitudine. E l’uomo non è fatto per stare da solo. Certo, accogliere gli altri può essere faticoso, ma solo un atteggiamento di serena apertura ci permette di incontrare l’altro e di arricchirci con la sua presenza. Lo stesso vale per Dio. Anzi, di più.
Accanto all’apertura, che mette in comunicazione piena con l’altro, c’è la disponibilità, cioè la capacità di dare qualcosa di mio per l’altro e di accogliere dall’altro qualcosa di suo. La disponibilità si basa sul saper cogliere i miei e altrui bisogni, in un dialogo continuo di dare e ricevere che costruisce e affina i rapporti. Davanti ad un Dio che è stato lui stesso così disponibile per l’uomo da scegliere, nell’ottica cristiana, di condividerne concretamente la sua umanità, non si può che essere disponibili ad accogliere e a “trafficare” quei talenti che vengono posti nelle nostre mani. Con i bambini piccoli la meta appare alta e lontana. Ma è solo iniziando a “lavorare” già da questa età, attraverso i piccoli gesti del quotidiano, che si può aiutare i bambini a sviluppare la collaborazione, la rinuncia a qualcosa di proprio per l’altro, l’attenzione a chi ha bisogno di aiuto.
La scoperta del senso religioso della vita nasce, spesso, dai numerosi interrogativi che sempre una persona si pone: prima o poi arriva il momento in cui ci si interroga profondamente sulla vita. Un “allenamento” a porsi adeguate domande nel quotidiano non può che fare bene anche alla crescita della religiosità. Quante volte capita di non scoprire nulla, anche ciò che è lì, sotto gli occhi, perché non si è abituati ad interrogarsi e ad interrogare la vita!
La fede cristiana non è mai solo fatto singolo: è sicuramente individuale nella decisione, perché ciascuno è chiamato e interpellato a rispondere in prima persona, ma comunitario nella sua esplicazione. Sentirsi appartenenti ad una comunità vuol dire avere la capacità di riconoscere che altri fratelli ricevono il dono della fede ed operano perché l’amore del Padre si diffonda. A livello di bambini dell’infanzia questo vuol dire trasmettere l’idea di comunità a partire dalla famiglia, dal gruppo di sezione, dalla scoperta di alcuni ambienti aggreganti come l’oratorio o gruppi sportivi (a livello ludico) che i più grandicelli cominciano a frequentare. Accanto a questa “cura” vanno mantenute alcune attenzioni didattico-pedagogiche che possiamo così sintetizzare:
5. LE DOMANDE DEI BAMBINI 5.1 Fare domande Numerose sono le domande che i bambini pongono agli adulti, genitori, insegnanti o educatori. Queste domande sono spie che rivelano problemi, ansie, bisogno di rassicurazione, desiderio di conoscere; oppure sono frutto di un lavoro interiore, più o meno inconscio, che riesce a trovare il modo per uscire allo scoperto. A volte gli adulti si sentono completamente inadeguati a rispondere: temono di sbagliare, di fare brutta figura, di non avere le parole giuste, soprattutto quando i temi sono scottanti. Teniamo presente una realtà: “Prioritaria alla necessità di fornire risposte corrette alle domande è l’esigenza di rispondere adeguatamente al bisogno di contatto, di empatia, di riconoscimento manifestato dal bambino che pone le domande.” 10 Accanto a questa consapevolezza occorre porne un’altra: il modo in cui si comunica è fondamentale nel dare risposte. Gli esperti della comunicazione affermano che:
È chiaro che non sono proprio le parole ciò che determina il successo o meno della comunicazione! Si potrebbero dire banalità che appaiono verità o, al contrario, dare risposte corrette nel contenuto ma non supportate da un adeguato tono di voce o addirittura contraddette dalla mimica corporea. Se da una parte occorre molta attenzione alla comunicazione, dall’altra occorre essere sempre ben consapevoli di
Nel rispondere è inoltre cosa buona “tenere presente che i bambini sono bambini, ma non sono dei cretini” 11: il loro essere persona, con le caratteristiche che li contraddistinguono, ma anche con tutta la dignità che va loro riconosciuta devono guidare l’adulto. Per questo le risposte degli adulti dovranno
Atteggiamenti da non tenere sono invece:
A volte potrebbe sembrare che i bambini abbiano bisogno di avere tante risposte. “Per certi aspetti potremmo dire che il bambino recepisce solo quelle conoscenze che sono risposta a delle domande che precedentemente si è fatto.” 12 “Gli insegnanti, i catechisti, i predicatori sono esperti nel dare risposte a delle domande che nessuno si pone.” 13 Da queste parole si coglie che il vero problema è quello di educare alla domanda, perché i bambini siano in grado di porsi degli interrogativi, via essenziale per poi cercare risposte. Secondo il CLAPARÈDE il periodo dell’infanzia che va dai 3 ai 7 anni è quello degli “interessi generali” 14 relativi ad ogni specie di fenomeni che il bambino cerca di spiegarsi. La serie di perché che a questa età il piccolo rivolge all’adulto (e non ai coetanei perché sa che da loro non verrebbe risposta) è spesso infinita: talvolta le domande si susseguono ad un ritmo incalzante, secondo una specie di gioco sistematico. L’origine e la natura delle cose eccita la curiosità del bambino: se, come vuole Platone, lo stupore è il padre della filosofia, si può dire che il bambino è già un filosofo in erba. Per porre un freno a questa frenesia di domande, S. ISAACS suggerisce di indurlo a riflettere per proprio conto, dicendogli magari: tu che ne pensi? Secondo H. WALLON , che ha analizzato il pensiero infantile prima che la scuola gli abbia fornito delle risposte già pronte, afferma che il pensiero del bambino si muove con lentezza. il suo ritmo non è il nostro e se gli si pongono troppe domande a breve distanza l’una dall’altra, si nota che egli sta ancora rispondendo alla prima quando gli viene fatta la seconda. Inoltre il bambino è incostante, impulsivo: è incapace di applicazione continua. Il suo pensiero è frammentario, animato da una logica immediata. Egli mescola la sua potente immaginazione alla semplice constatazione dei fenomeni, sui quali proietta il suo modo di essere e di agire, ricorrendo a spiegazioni mutuate dal mondo magico e dall’artificialismo.
I perché dei bambini riguardano un po’ tutti gli aspetti della vita: le loro domande sono serie quanto quelle degli adulti soprattutto se riguardano l’esistenza del mondo, la sofferenza, la morte, Dio, il bene e il male… Federico, un bambino della scuola dell’infanzia che ha visto il papà morire accanto a lui quando aveva solo due anni, voleva accanto a sé una sedia vuota quando faceva un’attività che gli piaceva particolarmente, “perché lì ci sta il mio papà”. E se accadeva che qualcuno inavvertitamente la occupava subito reagiva bruscamente ed esigeva che la sedia fosse liberata. Michele, 5 anni e mezzo, di fronte alla morte di un coetaneo: “Maestra, ma perché Federico è morto?” Davanti agli interrogativi dei bambini, soprattutto a quelli più impegnativi, come reagire? Le domande
Tra gli altri toccano alcuni temi di significato più strettamente religioso, perché riguardano l’interiorità umana:
Nei confronti dei bambini che soffrono occorre:
Di fronte alla SOFFERENZA FISICA occorre aiutare il bambino ad imparare che il dolore può anche essere sopportato, con un allenamento graduale, a partire dalle piccole cose. Più delicata è la SOFFERENZA MORALE. In questo caso occorre instaurare un rapporto di fiducia e piena disponibilità, così che il bambino possa riuscire a “tirarla fuori”, facendo anche molta attenzione ad ogni “segnale”. Per quanto sia difficile o imbarazzante parlare della sofferenza, il SILENZIO sul dolore non è mai una buona soluzione.
Scrive Philippe Ariès “Una volta si raccontava ai bambini che nascevano sotto un cavolo, però essi assistevano alla grande scena degli addii, nella camera, al capezzale del morente ... Oggi i bambini vengono iniziati, fin dalla più tenera età, alla fisiologia dell’amore e della nascita, ma quando non vedono più il nonno e chiedono perché, in Francia si risponde loro che è partito per un paese molto lontano, e in Inghilterra che riposa in un bel giardino dove cresce il caprifoglio: Non sono più i bambini a nascere sotto un cavolo, ma i morti a scomparire tra i fiori.” 15 Anche i bambini della scuola materna presentano già una certa concettualizzazione della morte.
L’insegnamento della Religione Cattolica:
Genitori ed insegnanti tendono a sottovalutare le conoscenze del bambino sulla morte, attribuendo loro idee molto meno evolute di quanto non abbiano in realtà. Così le risposte ai pungenti interrogativi dei bambini si limitano a formulazioni generiche, evasive, fornite tanto per trarsi d’impaccio, e finiscono per rimandare il problema. Altrettanto dannoso è il silenzio su questo scottante tema. Evitare di parlarne è come lasciare che il bambino brancoli nel buio. Un comportamento educativo corretto e professionalmente adeguato richiede che si dia sempre una risposta chiara e reale, che non mortifichi la curiosità conoscitiva di apprendimento e il bisogno di risposte esistenzialmente valide. La verità sulla morte non è mai comunicata una volta per tutte: va detta e ridetta a mano a mano che il bambino cresce.
L’itinerario didattico si svolge in una scuola dove gli alunni sono suddivisi in sezioni miste, con bambini di 3, 4 e 5 anni presenti in ogni sezione. La festa della Pasqua vicina è occasione per affrontare il tema della morte. In ogni sezione l’argomento viene aperto da una conversazione iniziale: le insegnanti registrano le risposte dei bambini agli stimoli ricevuti. Ne riportiamo alcune parti.
L’insegnante chiede: “E dov’è ora la tua nonna?”
L’insegnante chiede: “Ma come ha fatto ad andare in cielo?”
Insegnante e bambini stanno parlando di cosa si ricorda a Pasqua: Gesù era morto… ma poi è ritornato vivo… è andato in cielo... Domanda dell’insegnante: “Cosa gli è successo quando è morto?”
L’insegnante prosegue: “Conoscete qualcuno che è morto?”
“E cosa succede quando si muore?”
“E alle persone che non sono Gesù, cosa succede?
“E in cielo cosa fanno le persone che muoiono?”
“E cosa c’è?”
“Che cosa significa bambini, secondo voi che Gesù è morto?”
“Conoscete qualcuno che è morto?”
“Ma cosa succede alle persone che muoiono?”
“E con questo cosa vuoi dire?”
“Ma cosa succede ai cagnolini quando muoiono?
Il lavoro prosegue nelle varie sezioni con l’invito, rivolto dalle insegnanti ai bambini, a rappresentare il mondo dei morti, quello che qualcuno ha definito “il villaggio di Gesù”. Il progetto della realizzazione è affidato ai bambini: l’unica cosa che le insegnanti fanno è quella di mettere a disposizione dei bambini materiali diversi: carta, cartone, colori, … Le realizzazioni sono diverse e tutte molto significative. C’è chi organizza cartelloni ed un gruppo addirittura un plastico. Un’esemplificazione: nell’elaborato di un gruppo di bambini (sempre misti per età) il villaggio di Gesù ha tre cieli. Nel primo ci stanno le stelle e gli uccelli; nel secondo, bianco come il paradiso della pubblicità, c’è un Gesù in piedi, a braccia aperte in atteggiamento di accoglienza; nel terzo ci sono persone e animali morti, in posizione sdraiata.
Analizzando gli interventi dei bambini nella conversazione iniziale è possibile capire quale idea questi piccoli abbiano sulla morte:
Tutto questo dimostra che anche i bambini tra i 3 e i 5 anni si pongono grossi interrogativi di senso e cercano, a loro modo, di dare una risposta. A volte, però, i pensieri vengono messi in dubbio dalla realtà: se è vero che i vecchi muoiono è anche vero che muoiono pure persone non anziane. E allora emerge la malattia, con la consapevolezza, o forse solo l’intuizione, che non tutte le malattie portano alla morte. Il pensiero dell’aldilà non sembra preoccupare i bambini: si va da Gesù, c’è festa, Gesù accoglie tutti, uomini e animali. 1 R. Gregori in “Le competenze come riferimento dell’azione educativa” , Anthropos Educazione dicembre 2002 pag. 9 2 Diocesi di Cremona Strumento Diocesano 2004-2005 per la formazione in servizio degli insegnanti di religione pag. 4 3 op. cit. pag. 16 4 A. Gemelli, La psicologia dell’età evolutiva, Giuffrè, Milano 1956, pag. 340 5 G. Allport, L’individuo e la sua religione, La Scuola (BS) 1972, pag. 80 6 cfr Allport, op. cit. 7 G. C. Milanesi - M Aletti, Psicologia della religione, ELLE DI CI (TO) 1977, pag. 87-88 8 Sofia Cavalletti “Il potenziale religioso del bambino” - Città Nuova 9 cfr M. Aletti, op. cit. pagg. 27-44 10 G. e F. Avanti, Le domande dei figli da 0 a 15 anni, ed. Paoline 2002 11 G. e F. Avanti, op. cit. 12 M. Filippi, “L’ora di religione”, novembre 2002 13 N. Drinkwater (studioso inglese di didattica religiosa) 14 Claparède, Psychologie de l’enfant et Pédagogie expérimentale, Genève, 1911 pag. 241 15 Philippe Ariès, , Storia della morte in occidente, Milano 1989 : wp-content -> uploads -> 2016 2016 -> Tre collezioni-donazione alla Galleria nazionale 2016 -> Comunità Mandriola S. Giacomo Apost 2016 -> Programma svolto 2016 -> Memories and Encounters 2016 -> Repubblica italiana 2016 -> Teorie sul linguaggio dal mondo greco al Medioevo 2016 -> Disposizioni costituzionali (artt. 117 e 119) 2016 -> Profilo dinamico funzionale diagnosi clinico funzionale |