una forma ancor più preoccupante. Il mistico giustifica la sua
relazione con Dio dicendo che egli, proprio per quello che è, e cioè
per una qualche combinazione, è oggetto dell'amore speciale della
divinità. Con questo egli degrada tanto Dio che se stesso. Se stesso
perché è sempre un degradamento esser essenzialmente diversi dagli
altri a causa di alcunché di casuale; Dio, perché un Dio che ha dei
favoriti non è Dio ma un idolo.
Quello che inoltre mi dispiace nella vita del mistico, è la mollezza e
la debolezza della quale non lo si può scagionare. Quando un uomo
desidera esser certo nel profondo del suo cuore di amare Dio in verità
e con sincerità, e perciò molte volte, nella sua ansia di certezza,
prega Dio di far che il suo spirito testimoni al suo spirito: chi non
troverebbe questo bello e vero? Ma non ne consegue affatto che egli
debba ogni momento ripetere il tentativo, ogni momento far la prova
del suo amore. Egli avrà tanta grandezza d'animo da credere all'amore
di Dio e così avrà anche la franchezza di credere nel proprio amore, e
rimarrà contento nella vita che gli è stata assegnata proprio perché
sa che questo rimanervi è l'espressione più certa del suo amore, della
sua umiltà.
Finalmente poi la vita del mistico mi dispiace perché la ritengo un
tradimento verso il mondo nel quale vive, un tradimento verso le
persone alle quali è legato o colle quali egli avrebbe potuto entrare
in relazione se non gli avesse fatto comodo diventare un mistico. In
generale il mistico sceglie la vita solitaria, ma la cosa non è tanto
chiara; perché noi ci domandiamo se egli ha diritto di sceglierla.
Dato che l'ha scelta, egli non tradisce gli altri perché così facendo
egli dice agli altri: con voi non voglio aver nulla a che fare; ma mi
chiedo se egli ha il diritto di dirlo e di farlo. È sopratutto come
marito, come padre che sono nemico del misticismo. Anche la mia
vita familiare ha il suo tempio, ma se fossi un mistico, dovrei
averne ancora uno per me solo, e sarei un cattivo marito. Poiché,
secondo me, come spiegherò più avanti, è dovere di ognuno
sposarsi, e poiché e impossibile che io pensi che ci si debba sposare
per diventare dei cattivi mariti, capirai subito che devo avere
antipatia per ogni misticismo.
Chi si dedica unilateralmente alla vita mistica alla fine diventa
tanto estraneo a tutti, che ogni relazione, anche la più tenera e la più
sentita, diventa per lui indifferente. Non è in questo senso che
dobbiamo amare Dio più di nostro padre e nostra madre. Dio non è
tanto egoista, e non è nemmeno uno scrittore che goda di
tormentare i suoi eroi facendoli passare tra i più tremendi conflitti.
Non si potrebbe certo pensare una cosa più terribile di un vero
conflitto tra l'amore per Dio e l'amore per quegli uomini per i quali
egli stesso ha messo l'amore nei nostri cuori. Non avrai
dimenticato il giovane Ludvig Blackfeldt, col quale noi due alcuni
anni fa vivemmo in molta intimità, specialmente io. Egli era certo
un uomo molto intelligente; la sua disgrazia fu di perdersi
unilateralmente in un misticismo non tanto cristiano quanto
indiano. Se fosse vissuto nel medio evo senza dubbio avrebbe
trovato dimora in un chiostro. La nostra epoca non possiede aiuti
del genere, i quali, per altro, offrono solo una salvezza relativa.
Se un uomo si perde, deve necessariamente naufragare, se non
vien guarito completamente. Saprai che finì col suicidio. Aveva una
certa confidenza in me, e per me fece uno strappo alla sua teoria
prediletta che non si deve entrare in relazione con nessuno, ma solo
spontaneamente con Dio. Però la sua confidenza in me non fu mai
tanto grande che mi si aprisse del tutto. Negli ultimi sei mesi della
sua vita fui con terrore testimone dei suoi movimenti eccentrici.
È possibile che parecchie volte io l'abbia trattenuto; non lo posso
sapere con certezza, poiché non si apriva mai con nessuno.
Aveva una non comune capacità di nascondere i suoi stati d'animo,
e di dare ad una passione l'aspetto di un'altra. Alla fine finì la sua
vita senza che nessuno potesse spiegare il perché. Il suo medico
pensava che fosse affetto da una parziale pazzia; ed era un
pensiero molto ragionevole da parte del medico. Ma il suo spirito in
un certo senso era intatto fino agli ultimi istanti. Forse non sai che
esiste una sua lettera per il fratello, il Consigliere, nella quale lo
informa della sua intenzione. Ne unisco una copia. E' di una
veridicità che scuote ed è una espressione assai obbiettiva
dell'ultima agonia del perfetto isolato: "Onoratissimo signor
Consigliere, Le scrivo perché in un certo senso lei è la persona più
vicina a me, in un altro senso non mi è più vicina degli altri.
Quando riceverà queste righe non sarò più. Dovesse qualcuno
chiederle il perché, può rispondere: «c'era una volta una
principessa che si chiamava Luce dell'alba...» o qualche cosa di
simile, perché così avrei risposto anch'io se avessi potuto avere la
gioia di sopravvivere a me stesso.
Se qualcuno le chiedesse in quale occasione, può dire «in
occasione del grande incendio». Se qualcuno dovesse chiederle
quando, dirà ch'era nel mese di Luglio, mese tanto strano per me.
Se nessuno dovesse chiederle nulla di tutto questo, non risponda
nulla.
Non ritengo che il suicidio sia cosa degna di lode. Non è per vanità
che mi sono deciso ad esso. Credo invece alla giustezza della frase
che nessun uomo può sopportare di vedere l'infinito. Mi si è mostrato
una volta in senso intellettuale, e la sua espressione è l'ignoranza.
L'ignoranza infatti è l'espressione negativa del sapere infinito. Il
suicidio è l'espressione negativa della libertà assoluta. E' una forma
di libertà infinita, ma la forma negativa. Beato colui che trova la
forma positiva.
Con stima, Vostro L." Il povero Ludvig non era mosso dalla
religione, ma dal misticismo, perché la particolarità del misticismo
non è la religiosità ma l'isolamento col quale l'individuo si vuol
mettere in rapporto immediato con Dio senza tener conto di alcuna
relazione colla realtà data. Che, non appena si nomina la parola
mistica, si pensi subito e specialmente a qualche cosa di religioso
dipende dal fatto che la religione ha tendenza a isolare l'individuo,
cosa della quale ti puoi convincere colle più semplici osservazioni.
Forse vai in chiesa di raro, ma sarai tanto più osservatore. Non hai
notato che, nella messa, benché in un certo senso si abbia
l'impressione di una comunità, il singolo si sente isolato; si diventa
quasi estranei l'uno all'altro, ed è quasi solo attraverso un lungo giro
che ci si riunisce di nuovo.
E questo da che proviene, se non dal fatto che il singolo sente
talmente la sua relazione con Dio in tutta la sua intensità, che le sue
relazioni terrene, al confronto, perdono la loro importanza? Per la
persona sana e normale questo momento di estraneamento da tutto ciò
che è terreno non dura a lungo; e un allontanamento momentaneo
come questo aumenta e non diminuisce l'intensità dei suoi rapporti
terreni; ma quello che può essere sano come momento,
sviluppato unilateralmente, è una malattia che dà molto da pensare.
Poiché non possiedo un'educazione teologica, non mi sento in grado
di addentrarmi più a fondo nel misticismo religioso. L'ho solo
considerato dal mio punto di vista etico e perciò (credo giustamente)
ho dato alla parola misticismo un campo molto più vasto di quello che
ha di solito. Non dubito affatto che nel misticismo religioso vi sia
moltissimo di bello. Son certo che numerose nature profonde e serie
che si sono votate ad esso nella loro vita, han fatto esperienze
importanti e son diventate così adatte ad aiutare gli altri che
volevano arrischiarsi su questo cammino pericoloso con consigli,
istruzioni e cenni; nondimeno questa strada rimane non solo una strada
pericolosa, ma anche una strada errata. Vi è sempre una incongruenza.
Se il mistico non stima affatto la realtà, non si capisce perché non
consideri con la stessa incredulità quel momento nella realtà in cui
fu toccato dall'Altissimo.
L'errore del mistico non è dunque che egli sceglie se stesso, perché
secondo me questo fa bene a farlo, ma il suo errore è che non si
sceglie bene. Egli sceglie secondo la sua libertà, eppure non sceglie
eticamente; ma si può scegliere se stessi secondo la propria libertà
solo quando ci si sceglie eticamente; ma eticamente ci si può
scegliere solo col pentirsi, e solo col pentirsi di se stessi si
diventa concreti e solo come individuo concreto si è un individuo
libero. L'errore del mistico perciò non sta in qualche cosa di
consecutivo, ma sta nel primissimo movimento. Se questo lo si ritiene
giusto, ogni allontanamento dalla vita, ogni estetico tormento di sé è
solo una conseguenza ulteriore e giusta. L'errore del mistico è che
egli nella scelta non diventa concreto per se stesso e nemmeno per
Dio; sceglie se stesso astrattamente e perciò manca di trasparenza. Se
infatti si crede che l'astratto sia il più trasparente ci si sbaglia, il più
astratto è l'opaco, il nebuloso. Il suo innamoramento di Dio perciò
ha la sua espressione più alta in un sentimento, in uno stato
d'animo; nel crepuscolo, nei giorni di nebbia egli si congiunge col
suo Dio in movimenti indecisi. Ma quando si sceglie se stessi
astrattamente, non ci si sceglie eticamente. Solo quando nella scelta
si entra in possesso di se stessi, si ha indossato se stessi, si ha
penetrato se stessi, totalmente, in modo che ogni movimento è
accompagnato dalla coscienza di una responsabilità, solo allora si ha
scelto se stessi eticamente, solo allora ci si è pentiti di se stessi; solo
allora si è concreti, solo allora si è nel proprio isolamento totale in
assoluta continuità con quella realtà alla quale si appartiene.
Questa determinazione che scegliere se stessi è identico a pentirsi di
se stessi non la ripeterò mai abbastanza spesso, per quanto semplice
sia di per sé. Infatti tutto si aggira intorno a questo. Anche il
mistico si pente, ma si pente fuori di sé, non dentro sé; si pente
metafisicamente, non eticamente. Pentirsi esteticamente è repellente,
perché è una sdolcinatura; pentirsi metafisicamente è cosa inutile e
fuori posto poiché non è l'individuo che ha creato il mondo e non
occorre che egli si prenda tanto a cuore la sua eventuale vanità. Il
mistico sceglie se stesso astrattamente, e perciò deve anche pentirsi
di se stesso astrattamente. Questo lo si può vedere meglio dal
giudizio del mistico sull'esistenza, la realtà finita in cui egli pur vive.
Il mistico infatti insegna che questa è vanità, delusione e peccato;
ma ogni giudizio come questo è un giudizio metafisico e non
determina eticamente il mio rapporto con la realtà.
Anche quando chiama la finitezza peccato, dice la stessa cosa di
quando la chiama vanità. Se invece si vuol fermare sulla parola
«peccato» eticamente, egli determina il suo rapporto con la realtà non
eticamente, ma metafisicamente; poiché l'espressione etica non sarebbe
di sfuggire dalla realtà peccaminosa ma di entrarvi, di toglierla o di
sopportarla. Il pentimento etico ha due soli movimenti: o toglie il
suo oggetto o lo sopporta. Questi due movimenti denotano anche un
rapporto concreto tra l'individuo che si pente e quello che è oggetto
del suo pentimento, mentre lo sfuggire esprime un rapporto astratto.
Il mistico sceglie se stesso astrattamente, perciò si può dire che
egli costantemente sceglie se stesso fuori dal mondo: ma ne consegue
che egli non può scegliere se stesso di ritorno nel mondo. La vera
scelta concreta è quella colla quale io nello stesso istante che mi
scelgo fuori dal mondo mi scelgo di ritorno nel mondo. Infatti quando
io, penitente, scelgo me stesso, mi concentro in tutta la mia
concretezza finita; e rimango nella continuità più assoluta con essa,
quando fuori della sua finitezza scelgo me stesso secondo la mia
infinità.
Quando il mistico sceglie se stesso astrattamente, fa un'enorme
fatica, anzi gli è addirittura impossibile mettersi in movimento. Quel
che succede a te pel tuo primo amore terreno, succede al mistico pel
suo primo amore religioso. Egli ne ha gustato tutta la sua
beatitudine, e poi non sa far altro che attendere se essa vorrà
ritornare in tutta la sua magnificenza, ed è facile che sia preso dal
dubbio; può dubitare, come ho tanto spesso accennato, che l'evoluzione
sia retrocessione, depauperamento. Per il mistico l'esistenza è un
ostacolo e un ostacolo tanto preoccupante che quasi corre il pericolo
che la vita lo frodi di quello che aveva già posseduto. Se perciò si
chiedesse a un mistico qual è il significato della vita forse
risponderebbe: imparare a conoscere Dio, innamorarsi di lui. Questa
però non è la risposta alla mia domanda; perché qui il significato
della vita è concepito come momento, non come successione.
Quando perciò gli chiedessi che significato ha per la sua vita il
momento significativo dell'esperienza mistica, o, con altre parole,
quale sia il significato della temporalità, non avrà molto da
rispondere, in ogni caso nulla di piacevole. Se dice che la
temporalità è un nemico che deve esser vinto gli si dovrebbe chiedere
se non ha una importanza particolare il fatto che questo nemico
venga vinto. Veramente il mistico questo non lo pensa, eppure
preferirebbe aver liquidato il suo conto colla temporalità. Così
come disprezzava la realtà e la concepiva metafisicamente come
vanità, disprezza ora la storia e metafisicamente la concepisce
come una inutile fatica. Il significato più alto che sa dare alla
temporalità è quello di considerarla un periodo di prova, nel
quale continuamente si rinnovan le prove senza che realmente ne
risulti nulla o si vada più avanti di quel che si era al principio.
Questo pertanto è un non voler riconoscere la temporalità
poiché è vero che essa mantiene sempre in sé qualche cosa della
«ecclesia pressa», ma essa è anche la possibilità della
glorificazione dell'anima finita. È proprio la bellezza della
temporalità che in essa lo spirito infinito e quello finito si
separino; ed è proprio la grandezza dello spirito finito che gli sia
assegnato come luogo di battaglia il tempo. La temporalità dunque non
esiste, per così dire, a cagione di Dio, perché egli in essa, per
parlare misticamente, possa provare e tentare chi lo ama; essa esiste
a cagione dell'uomo ed è il dono di grazia più grande di tutti. In
questo infatti sta l'eterna dignità dell'uomo, che egli può avere una
storia; in ciò sta il divino in lui, che egli stesso, se vuole, può dare
continuità a questa storia: continuità essa l'acquista soltanto quando
non è la somma di quanto mi è successo o accaduto, ma la mia
propria azione, così che perfino quello che mi è casualmente accaduto,
in me è trasformato e trasportato dalla necessità alla libertà. Questo è
quello che vi è di invidiabile nella vita dell'uomo, che si possa
venire in aiuto alla divinità, la si possa capire; ed è ancora l'unico
modo degno dell'uomo di capirla, quello di appropriarsi in libertà di
tutto quello in cui ci si imbatte, sian gioie o dolori. O non ti pare
così? A me pare così e mi pare perfino che occorra solo dirlo ad alta
voce ad un uomo per renderlo invidioso di se stesso.
I due punti di vista qui accennati potrebbero esser ritenuti un
tentativo per tradurre in realtà una concezione di vita etica. Questo
fallisce perché l'individuo ha scelto se stesso nel suo isolamento o
ha scelto se stesso astrattamente. Si può esprimere la stessa cosa
anche dicendo che l'individuo ha scelto l'etica ma non ha scelto se
stesso eticamente. Perciò egli non è in coesione colla realtà, e
quando è così, nessuna concezione di vita etica può esser tradotta in
realtà. Chi invece sceglie se stesso eticamente si sceglie
concretamente, come questo individuo determinato, e raggiunge
questa concretezza coll'esser questa scelta identica al pentimento,
che sanziona la scelta. L'individuo diventa cosciente di sé come
questo determinato individuo, con queste doti, queste tendenze,
queste passioni, questi ardori, influenzato da questo determinato
ambiente, come questo determinato prodotto di un mondo
circostante determinato.
Ma mentre diventa cosciente di sé in questo modo, egli assume
tutto sotto la sua responsabilità. Non esita se debba prender o no
con sé anche il particolare, perché sa che qualche cosa di molto più
alto va perso se non lo fa. Così nel momento della scelta egli è
nel più completo isolamento, perché si ritira da quel che gli è
attorno; eppure nello stesso momento è in assoluta continuità perché
sceglie se stesso come prodotto; e questa scelta è la scelta della
libertà, così che mentre sceglie se stesso come prodotto, si può
anche dire che produce se stesso. Egli così al momento della
scelta è alla conclusione, perché la sua personalità si racchiude,
eppure nello stesso momento è proprio al principio perché sceglie se
stesso secondo la sua libertà. Come prodotto è premuto nelle
forme della realtà, nella scelta rende se stesso elastico, trasforma
tutta la sua esteriorità in interiorità. Egli ha il suo posto nel
mondo; nella libertà sceglie egli stesso il suo posto, cioè, questo
stesso posto che egli ha. È un individuo determinato; nella scelta
rende se stesso un individuo determinato: cioè questo stesso
individuo che egli è.
Poiché egli sceglie se stesso.
L'individuo sceglie perciò se stesso come una concretezza
molteplicemente determinata, e perciò si sceglie secondo la sua
continuità. Questa concretezza è la realtà dell'individuo; ma poiché
la sceglie secondo la sua libertà, si può anche dire che è la sua
possibilità, o, per non usare un'espressione così estetica, che è il suo
compito. Chi vive esteticamente infatti non fa che vedere ovunque
possibilità, queste costituiscono per lui il contenuto del futuro;
mentre chi vive eticamente vede dappertutto compiti. L'individuo
dunque vede questa sua reale concretezza come compito, come
scopo, come fine. Ma che l'individuo veda la sua possibilità come
il suo compito esprime proprio la sua sovranità sopra se stesso, alla
quale non rinuncerà mai, anche se d'altra parte non prova gusto
nella sovranità del tutto indisturbata che è sempre del re senza
regno.
Questo dà all'individuo etico una sicurezza che a chi vive solo
esteticamente manca del tutto. Chi vive esteticamente attende tutto da
fuori. Da ciò il terrore malsano col quale molti parlano dell'orrore di
non aver trovato il loro giusto posto nel mondo. Nessuno vorrà
negare la gioia che deriva dall'aver trovato il proprio posto; ma un
terrore come quello denota sempre che l'individuo attende tutto dal
suo posto e nulla da se stesso. Chi vive eticamente saprà anche
sceglier bene il suo posto, se invece sente che ha sbagliato o che si
elevano gli ostacoli che non sono in suo potere, non perde il
coraggio, perché non rinuncia alla sovranità su se stesso. Egli vede
subito il suo compito, e perciò è immediatamente attivo. Così spesso
si vedono persone che temono che quando si innamoreranno non
potranno aver la fanciulla che è proprio l'ideale adatto a loro.
Nessuno nega la gioia di trovare una fanciulla simile, ma d'altra
parte è una superstizione credere che sia qualcosa che viene dal di
fuori ciò che può render felice un uomo. Anche chi vive
eticamente desidera esser fortunato nella sua scelta; se intanto risulta
che la scelta non è proprio secondo il suo desiderio, non perde il
coraggio; vede subito il suo compito e sa che l'arte non sta nel
desiderare, ma nel volere.
Molti, che pure hanno un'idea di cosa sia la vita umana, desiderano
d'esser contemporanei di grandi avvenimenti, di essere coinvolti in
importanti circostanze di vita. Nessuno vuol negare che questo abbia
il suo valore, ma d'altra parte è superstizione pensare che
avvenimenti e circostanze di vita come tali possano far diventare
l'uomo qualche cosa. Chi vive eticamente sa che importante è solo
quell'umanità che si trova in ogni relazione, quell'energia colla
quale la si considera. Chi vive così può esperimentare più cose nelle
circostanze di vita più insignificanti che non colui che è stato
testimone, e anche parte attiva, degli avvenimenti più straordinari.
Chi vive eticamente sa che ovunque è un'arena; che anche il più
misero uomo ha la sua; che il suo ballo, se lo vuole, può essere
altrettanto bello, altrettanto grazioso, altrettanto mimico, altrettanto
vivace come quello di coloro ai quali fu dato un posto nella storia.
E' questa arte di schermitori, questa agilità che è veramente la vita
immortale dell'etica. Per colui che vive esteticamente vale il vecchio
detto: «essere o non essere»; e quanto più esteticamente gli è
concesso di vivere, tanto più numerose son le condizioni che la sua
vita esige; e quando gli manca solo la più piccola è un uomo morto:
chi vive eticamente ha sempre una via di scampo; quando tutto gli è
contro, quando l'oscurità della tempesta cova su lui sì che il suo
vicino non lo vede più, egli pertanto non ha fatto naufragio e rimane
sempre un punto al quale egli si stringe, questo punto e: se stesso.
Una sola cosa non voglio tralasciare di inculcarti: non appena la
ginnastica dell'etica diventa esperimento, egli ha cessato di vivere
eticamente. Ogni esperimento ginnastico del genere non è che ciò che
la sofistica è nel campo della conoscenza.
Qui voglio richiamare la mia definizione dell'etica: essa è ciò per
cui l'uomo diventa quello che diventa. Essa non vuole che l'individuo
diventi un altro, ma se stesso; non vuole distruggere l'estetica, ma
illuminarla. Perché l'uomo possa vivere eticamente è necessario che
divenga cosciente di sé tanto radicalmente che nessuna casualità gli
sfugga. L'etico non vuole cancellare questa concretezza dell'uomo ma
vede in essa il suo compito, vede ciò da cui deve formare e ciò che
deve formare. Di solito si considera l'etica in modo assolutamente
astratto e perciò si ha un segreto terrore di essa. L'etica vien
considerata come qualche cosa di estraneo alla personalità, e ci si
duole di doversi affidare ad essa, perché non si può mai sapere con
Sören kierkegaard
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